united 93

La storia dell’unico volo che l’11 settembre mancò il suo obiettivo, in un film dalla regia documentaristica ma estremamente efficace e toccante.

Dopo ormai cinque anni dalla terribile data dell’11 settembre 2001, il cinema americano ha deciso che fosse giunto il momento di affrontare la ricostruzione di quegli eventi che portarono alla morte più di tremila persone in uno degli attentati terroristici più feroci che la storia dell’uomo ricordi. In attesa del film di Oliver Stone che farà prossimamente sbarco nelle sale cinematografiche, ecco arrivare intanto sul grande schermo United 93 di Paul Greengrass (Bloody Sunday, The bourne supremacy), una pellicola molto intimistica, poco spettacolare, con uno stile molto lontano da quello hollywoodiano tipico dei Disaster Movie, ma ugualmente efficace e di grande impatto emotivo.

United 93 è la storia dell’unico dei quattro aerei che si schiantarono sul suolo americano a non aver raggiunto il suo obiettivo e, secondo quanto sostenuto da Greengrass e dai parenti di coloro che nell’occasione persero la vita, spesso dimenticato dalle cronache giornalistiche proprio per questa ragione. Sfruttando l’aiuto dei familiari e delle telefonate giunte dall’aereo pochi minuti prima dello schianto nelle campagne della Pennsylvania, il regista ha voluto così dare vita ad un film che non mirasse ad una ricostruzione della verità (impossibile purtroppo da afferrare), ma a dare una possibile versione dei fatti.

Lo stile di Greengrass è in questo senso molto documentaristico: una regia “splendidamente” fredda, oggettiva, che si muove in tempo reale nei pochi spazi interni limitati e claustrofobici cui il film ci costringe, caratterizzata da un uso preponderante della macchina a mano e dello zoom sui volti dei personaggi. Non ci sono retoriche, falsi sentimentalismi, approfondimenti psicologici, patetismi, intrecci sofisticati. Greengrass evita gli elementi tipici della finzione cinematografica e fa apparire tutto tremendamente realistico (gli attori sono tutti sconosciuti, alcuni addirittura vero personale di bordo) e quindi ancora più toccante dal punto di vista emotivo rispetto alle convenzionali e falsamente sentite commemorazioni ufficiali delle vittime.

La macchina a mano, dinamica e mobilissima, crea un clima di estrema inquietudine, confusione e insicurezza, riflesso degli stati d’animo dei personaggi sbigottiti e impotenti di fronte all’incedere degli eventi, che la tecnica cinematografica porta direttamente al cuore dello spettatore. L’impressione generale è quella di un film girato quasi interamente in soggettiva, la nostra soggettiva, quella di noi spettatori lasciati precipitare nella confusione delle torri di controllo degli aeroporti, negli uffici dell’aviazione civile, tra i sedili del volo United 93 e nella disperazione dei suoi passeggeri.

Finiamo tutti quindi inevitabilmente per sentirci immerio nella vicenda, partecipi del “presunto” tentativo di salvezza operato dai passeggeri del volo e della loro stessa situazione di paura e incapacità di comprendere gli eventi che li circondano: a parte sapere il destino cui essi andranno incontro, lo spettatore diventa uno di loro, seduto anche lui in uno dei sedili dello United 93 (ed infatti quando i passeggeri parlano di nascosto al telefono non sentiamo né vediamo mai i loro interlocutori).

United 93 è un film senza propositi ideologici, anche se con un’implicita denuncia all’incapacità di agire dei vertici militari e politici in quelle ore, che però si perde nei ritmi frenetici e convulsi di un magistrale montaggio e di una sceneggiatura elaboratissima e curata nei particolari: il tentativo è invece quello di ricostruire gli eventi, filmare ciò che forse potrebbe essere successo, lasciando i personaggi anonimi, privi di personalità, ritratti nelle banalità del quotidiano, proprio come li conosceremmo noi se fossimo lì con loro.

Momenti per riflettere non ce ne sono: nella realtà non c’è stato il tempo di ragionare o pensare e così deve essere anche nel film; sui personaggi e sullo spettatore non fa altro che scorrere implacabile il tempo e, dal punto di vista cinematografico, uno spietato montaggio veloce e senza tregua che attua un climax culminante in una splendida sequenza finale, venti minuti terribilmente intensi, tecnicamente perfetti e folli, con una macchina da presa disorientante e ultra-dinamica, e una forza narrativa “brutalmente” emotiva. Capita raramente di trovarsi di fronte ad un film cosi freddo e oggettivo, ma così estremamente forte e drammatico.

United 93 può identificarsi quindi come un film corale, senza eroi, senza personaggi che spiccano su altri, privo di sequenze spettacolari o elementi portati all’eccesso (lo stesso commento musicale è appena percepibile e mai invadente, fatta eccezione per gli ultimi cinque minuti, talmente caotici però da renderlo comunque secondario): la forza del film non sta nel coraggio dei passeggeri che tentano un disperato e inutile salvataggio (sarebbero stati facili i patriottismi e l’elogio del coraggio americano, ma Greengrass l’ha saggiamente evitato, lasciando ancora una volta tutto estremamente freddo), ma nell’umanità, nell’attaccamento alla vita e nel rispetto per i morti.

Con la bellissima regia di Greengrass entriamo tutti noi nello United 93. Anche noi moriamo insieme ai suoi passeggeri. Siamo noi stessi vittime della tragedia. Ci schiantiamo anche noi sul suolo americano. Le nostre anime si perdono nel buio del nero cinematografico su cui implacabilmente iniziano a scorrere i titoli di coda, segnando la fine di una vicenda per cui non ci sarà mai sollievo, una pagina della nostra storia, come tante, incaccellabile. Tremendamente drammatica. Tremendamente cruda. Purtroppo, tremendamente vera

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